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come eravamo

Come eravamo…

Di Ezio Mega

 Giocando e rincorrendoci in mezzo alla strada aspettavamo che la macchina arrivasse. La macchina era stata presa a noleggio e mandata apposta alla stazione di Lecce per prelevare i miei fratelli e portarli a casa.

Mio fratello e mia sorella  erano ormai da anni emigrati in Svizzera come tanti del paese, del resto. L’altro mio fratello, invece era partito militare non appena compiuti i sedici anni. Erano gli anni ’50, il periodo in cui molti contadini abbandonavano la terra per emigrare in quella nazione. Un vero esodo di gente, che si spostava attratta da un lavoro stabile e ben remunerato, con l’aggiunta del versamento dei contributi assicurativi per la vecchiaia, cosa impensabile nei nostri paesi. Certo è che quella emigrazione in massa provocò lo spopolamento delle campagne. L’agricoltura, che era stata il fulcro dell’economia del paese e del meridione tutto per secoli e per intere generazioni, andò in crisi, una crisi profonda, epocale, che da allora a tutt’ora non si è mai più ripresa.

Era un periodo difficile: verso la fine degli anni ‘50 la vita nei paesi del Sud, nel mio in particolare, perché piccolo e perchè nulla di attrattivo ed interessante vi era. Si viveva una vita semplice, priva di fronzoli. Lavorare e lavorare, senza nessun divertimento, senza nessuno svago. Null’altro succedeva, nulla che potesse svegliare il torpore della vita di paese. Era come vivere nel Limbo in attesa di qualcosa che cambiasse la nostra opaca esistenza. Vivevo si in una famiglia numerosa e compatta, non mi mancava nulla dello stretto necessario. Ma io, e tutti i ragazzi quasi giovanotti del paese aspiravamo a qualcosa di meglio, qualcosa per cui potersi realizzare, che ci rendesse indipendenti. Per fare questo si doveva per forza andare via da casa perché nè nel paese nè nei paesi vicini non c’era possibilità di realizzare tutto questo. I miei fratelli e mia sorella  lo avevano già fatto, destino questo che sarebbe toccato anche a me una volta adulto.  Per loro la vita era cambiata   ed anche per noi che attendevamo il loro ritorno per le ferie estive.  Il loro arrivo era per noi ragazzi un avvenimento. Con loro portavano in casa una ventata di ottimismo e di novità.

Quando la macchina si fermava vicino casa e loro scendevano era per noi come se il sole si accendesse di colpo. Il grigiore di tutti i giorni della vita monotona del paese cambiava di colpo di luce e di colore. Scaricate le valigie gonfie fin quasi a scoppiare, legate con una grossa corda  per evitare che ciò succedesse, entravamo in casa, e  anche la casa cambiava aspetto. Era come se una fata con  la sua bacchetta magica l‘avesse trasformata: come per incanto, i muri e i mobili della casa sembrava avessero cambiato aspetto; era come trovarsi in un giardino dove si respirava aria fresca e pura. Anche noi ci sentivamo nuovi, rinati. Era questo l’effetto che loro producevano quando tornavano in paese per le ferie d’agosto.

Mentre svuotava le valigie dopo averle liberate dalle corde, mia sorella raccontava a mia madre i disagi del viaggio, la gente che aveva incontrato nel treno durante il lungo viaggio per venire giù al sud. Il fumo del carbone che produceva la caldaia del treno, raccontava, entrava dai finestrini, prepotentemente spinto dai vortici di vento che si formavano, durante il lungo tragitto, ai lati delle carrozze, appestando l’aria di un odore acre che prendeva alla gola. Affacciarsi dal finestrino, oltre ad essere pericoloso, raccontava mia sorella, era come mettere la faccia nel carbone: zaffate di fumo nero ti investivano, mozzandoti il fiato e annerendoti viso e collo. Le gallerie che attraversavano le montagne erano poi così lunghe e buie che per attraversarle venivano accese le luci degli scompartimenti come fosse notte. Io, essendo vissuto da sempre in una regione piatta e priva di alture, non conoscevo le gallerie, non sapevo cosa fossero, ignoravo la loro esistenza Mia sorella diceva che erano lunghe molti chilometri, il che destava in me meraviglia. La guardavo stupìto senza dire una parola. Poi ci distraevamo, affascinati da quello che dalla valigia tirava fuori mia sorella, non udivamo più le sue parole, sfumavano nell’aria come aliti di vento. A noi ragazzi interessava, quello che dalla valigia usciva fuori, mentre mia sorella la svuotava. Barattoli di conserve alimentari, ravioli, melassa, (che cosa era poi questa melassa? Boh! Che cosa erano i ravioli? Mai visti, mai sentito parlare). Tonno, carne in scatola, banane, (e chi le aveva viste mai le banane, se non sui libri di scuola?). Io e mia sorella più piccola prendevamo i barattoli in mano, leggevamo le etichette ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. Come eravamo felici! E poi ancora indumenti, regali, e poi tanto cioccolato, di tutti i tipi di tutte la varietà: con nocciole, con mandorle e uva passa… al latte… fondente. Mia madre preferiva il cioccolato  fondente, io lo trovavo amaro e sgradevole, preferivo quello al latte o quello con le nocciole. Inoltre sigarette per gli amici e regali e tanta altra roba. Insomma vi era un “qualcosa” per tutti. Quanto più cose tirava fuori, tante di più ve ne erano dentro. Sembrava la valigia un pozzo senza fondo, il cilindro magico di un mago da cui uscivano in continuazione cose meravigliose, stupefacenti per in nostri occhi infantili. Mia sorella continuava a parlare con mia madre informandola sul lavoro e sui colleghi. Per lei erano tutti amici, persone gentili, disponibili e buone. Non smetteva mai di parlare e di sorridere, sembrava avesse una voglia arretrata di sorridere e di parlare che non si esauriva mai. L’impressione che dava a noi tutti era quella che in Svizzera avesse trovato il paradiso terrestre, un mondo idilliaco in cui tutti erano buoni e che i cattivi non esistessero affatto. Ma in realtà non era così. Era duro  lavorare all’estero in qualsiasi nazione ci si trovasse. Cosa vissuta da me personalmente quando da grande fui costretto ad emigrare anch’io per  trovare lavoro. Si era sempre trattati da stranieri e mai ben accettati. Vi era sempre una barriera invalicabile che ci differenziava da loro impedendoci di integrarci nella loro società. Ma il lavoro di cui avevamo bisogno ci faceva vedere tutto rosa, anche se di rosa non ce n’era poi tanto, anzi non ve ne era affatto. Il lavoro era duro all’estero e non era poi così facile vivere in quella nazione come mia sorella voleva farci credere).

Mia madre poi quando venivano i miei fratelli per le ferie, si sfiziava con la cucina. Anzi si scatenava a preparare per loro le specialità culinarie tipiche del nostro paese. Piatti squisiti, prevalentemente a base di pesce, elemento che in Svizzera era impossibile reperire fresco: zuppa di pesce, polipi, mitili, ricci e tutto ciò che il mare produce. Presto, al mattino, si recava nella piazza ad aspettare che il pescivendolo arrivasse. Conosceva l’orario in cui il pescivendolo arrivava da Gallipoli in paese col suo carico e, in prima fila vicino al bancone, sceglieva quello migliore.  Il pesce mia madre lo conosceva bene e sapeva anche sceglierlo bene, conoscendone le caratteristiche, le peculiarità e la freschezza. Si vantava orgogliosa che mai nessun pescivendolo l’avesse presa in giro rifilandole qualche pesce vecchio, come usavano fare i pescivendoli per smaltire quello del giorno prima. Con lei non era mai successo. Prima di pagare controllava il prodotto: se andava bene, contrattava il prezzo che doveva essere giusto e  favorevole secondo il suo metro di valutazione, che era sempre a suo favore. Doveva nascere, diceva lei, “chi l’avrebbe fregata su quelle cose”. Doveva nascere si, perchè comprava sempre il pesce più fresco, saltellante e vivo: scorfani, angeli, lucerne, pescatrici, polipi, calamari e gamberi, e quanto era necessario per un’ottima zuppa o per una eccellente frittura. Il pesce era tanto fresco che, buttato nella padella per cucinarlo tentava con movimenti arcuati del corpo di schizzare fuori, nonostante fosse sventrato e squamato: doveva tenersi pronta con un coperchio in mano e metterlo sopra la pentola perché il pesce non saltasse fuori. Il sughetto di quella zuppa di pesce, poi?...Era una poesia! Con quel sughetto mia madre condiva la pasta, servendo il pesce come secondo: che bontà! 

Ogni giorno preparava una specialità differente, ogni giorno una novità. Variava di giorno in giorno per fare in modo che i miei fratelli ritrovassero il gusto, i sapori che all’estero potevano solo sognare. Quando poi decideva di preparare le cozze... Era un sogno culinario. Una sequela di sapori e di odori inondavano la cucina e la casa tutta. Preparava i mitili in tutti i modi con gusto e fantasia:- crudi, aperti a metà e poi conditi con olio, aceto e pepe; pasta con le cozze, cozze gratinate, cozze fritte, (aperte ad una ad una passate prima nella farina e poi nell’uovo sbattuto), frittata di cozze e quanto altro la fantasia le suggeriva. Era tutto così buono che non smettevamo mai di mangiare. Parlare e mangiare. Parlare e bere. Era gioioso stare insieme,  l’allegria si diffondeva fra di noi. Ci godevamo quei pochi effimeri giorni di serena e autentica felicità. In quei momenti dimenticavamo tutto. Il mondo era fuori, fuori dalla nostra cerchia familiare unita e compatta, nessuno in quei momenti poteva intaccare la nostra intima e preziosa felicità.

Mentre mia sorella non si allontanava un attimo da casa, se non per poco tempo e solo per salutare i parenti, mio fratello invece non rimaneva un attimo in casa, passava il tempo a divertirsi con gli amici o con le ragazze. Il denaro che guadagnava durante l’anno lo spendeva tutto quanto. Essendo appassionato di macchine e motori, si era comprato una “Gilera”. Ci teneva più alla moto che a  se stesso. Nessuno la poteva toccare, nessuno si poteva avvicinare. Era un paio d’anni che l’aveva comprata. Prima di partire la puliva, la lucidava, la oliava e dopo la copriva con un telo. Nessuno la doveva toccare e nessuno la toccava. L’avrebbe  usata di nuovo quando sarebbe tornato il prossimo anno per le ferie. Intanto scorazzava in lungo e in largo per il paese in compagnia delle ragazze affascinate dalla moto (un’autentica novità per il nostro paese), e anche da lui perché era un bel ragazzo. Si accompagnavano volentieri a lui. Salivano sulla moto e partivano per chissà dove, incuranti delle malelingue dello scandalo per i benpensanti del paese. Era quella una delle occasioni per le pettegole perché si sfogassero con la loro lingua tagliente. Mio fratello se ne fregava altamente delle malelingue e si portava la ragazza di turno al mare, al cinema o a fare delle passeggiate. Insomma, durante il mese di ferie si dava alla bella vita: non stava mai in casa, impegnato com’era nelle storie sentimentali. Aveva in paese anche molti amici ed, essendo per indole cordiale e socievole, con loro trascorreva il resto del tempo che non passava con le ragazze. Le serate le passava con loro a giocare a carte e parlare di cose da uomini. Per lui gli amici organizzavano serate di ballo in cui scialava, come al solito, passandosi tutte le ragazze. Era un dongiovanni e un donnaiolo impenitente e di questo non ne faceva mistero, anzi ne era fiero. Nel darsi da fare con tutte, a volte combinava  delle situazioni così intricate da cui lui stesso poi non sapeva come uscirne fuori.

                                                              

 

 

La sera mia sorella mi mandava a prendere la pizza. “Vai a prendere una pizza”, mi diceva,  mentre frugava nel portamonete cercando le centocinquanta lire per la pizza e le ottanta lire per la birra fresca. Era questa una piacevole usanza,  che mia sorella aveva portato dalla Svizzera, quasi un rito che quando era in ferie puntualmente osservavamo.  La prima volta fu tragica, non volevo andare. Mi intimidiva la figura del gestore, il suo viso, un ceffo dallo sguardo torvo e iroso, così io lo vedevo. Essendo per natura timido, non di una timidezza normale, ma quasi patologica, come facevo a chiedere una pizza a quell’omone? E se non me la dava? Come facevo a tornare a casa senza pizza e scornato? Provavo la stessa sensazione lo stesso disagio quando mia madre mi mandava al bar per prendere un ” Fernet” per l’altra mia sorella che viveva a quel tempo ancora in famiglia, quando sentendosi male perché non aveva digerito, aveva bisogno di quel digestivo. Mi dava un bicchierino e io dovevo recarmi al bar per comprare l’amaro. Mi vergognavo a morte perché avevo paura che il tizio del bar non me lo desse essendo, secondo me, una richiesta ridicola e insensata. Ma non potevo protestare, con mia madre non si scherzava, quando ti ordinava di fare una cosa la dovevi fare e basta. Poi mi dispiaceva per mia sorella che si sentiva male. Mi recavo mogio mogio in piazza e, arrivato al bar, entravo e chiedevo al barman con lo sguardo abbassato il fernet. La meraviglia era grande quando il barman, senza battere ciglio, mi riempiva il bicchierino senza proferire parola, con una normalità disarmante. Con grande sollievo pagavo e andavo via di corsa rischiando, nella fretta di allontanarmi dalla piazza, di versare il prezioso contenuto per terra.      

La stessa sensazione provai quando per la prima volta andai a comprare la pizza. Mi vergognavo ad entrare in un bar, figurarsi poi se dovevo entrare per chiedere qualcosa…Come avrei fatto? Con quale faccia mi sarei presentato? Avrei mai avuto il coraggio di chiedere una pizza?

Il bar-pizzeria si trovava poco più in là della piazza principale del paese, giusto a pochi metri da essa, dopo aver imboccato una delle strade laterali prima della discesa. La strada in cui si trovava il bar non era larga, ma lo era il suo marciapiede che consentiva di mettere dei tavolini per gli avventori durante l’estate e le belle giornate d’inverno. Era il bar un’autentica novità per il paese. Era nuovo di zecca, un bar-pizzeria. Nessuno conosceva le pizze in paese, se non coloro che erano stati all’estero come mia sorella e mio fratello. Aprire una pizzeria, in un paese piccolo come quello in cui vivevo io era un azzardo, un malaffare, solo uno sventato come Aldo lo poteva fare; e lo fece rischiando il tutto e per tutto. Aldo aveva lavorato a Milano per diversi anni e in quella grande città aveva imparato a fare le pizze e a gestire un bar. Il locale era bello, elegante, pulito e ordinato.  Si chiamava: BAR ROSSO-NERO. Delle luci al neon rosse e delle fasce nere ne confermavano il nome. Non conoscevo la ragione per la quale Aldo avesse chiamato il bar in quel modo. Era forse perché tifoso del Milan (avendo vissuto a Milano era una ipotesi quanto mai attendibile)? O si era fatto influenzare da qualche lettura come “Il rosso e il nero”di Stendhal?  Cosa quanto mai assurda, guardando in faccia Aldo. Erano soltanto ipotesi che mi frullavano per la testa, ma la verità non la conoscevo affatto. Certo che dalla sua faccia  indisponente e dal fisico possente, come quello di un lottatore di Sumo, nessuna delle due ipotesi poteva reggere, anzi non reggeva affatto. Probabilmente l’aveva chiamato in quel modo perché allora quei due colori abbinati erano sinonimo di distinzione ed eleganza.

Arrivato al bar la vista del gestore mi inquietò. La lingua si paralizzò. Volevo scappare. Il locale era accogliente però. Il grande bancone lungo e lucido. Le luci rosse soffuse. In fondo al locale il forno  a legna era già acceso, dalla piccola bocca si intravedeva una grande fiamma che lo avvolgeva tutto.     Era in verità piacevole starci dentro. Ordinai la pizza ed una birra fresca. L’unica pizza che preparassero era la “Napoletana”. Ebbi l’impressione, mentre ordinavo la pizza, che Aldo mi guardasse quasi con disprezzo, come se pensasse “chi è questo microbo?”.  Senza dire una parola però andò a preparare la pizza che in pochi minuti fu pronta. La piegò in due, la incartò nella carta oleata, mi diede la birra, pagai e andai via. Mentre attraversavo la piazza il profumo che sprigionava l’incarto era stuzzicante. L’odore delle alici,del pomodoro,della mozzarella e della pasta lievitata era esilarante, afrodisiaco quasi. Percorsi la strada del ritorno di corsa. Adesso non vedevo l’ora di mangiarla. Pregustavo già il sapore in bocca.

Arrivato a casa mia sorella la divise in pezzi e distribuì un pezzo ad ognuno di noi, che prendevamo e mangiavamo con gusto. Il rito della pizza era una vera festa per noi. Poi arrivava il momento della birra. Mia sorella la apriva. Invitava noi ragazzi ad assaggiarla. Io non la volevo assaggiare, non mi piaceva. Allora mia sorella insisteva:

-Dai, assaggiala.

- Non la voglio, rispondevo.

-Perché?

- Mi disgusta. Sa di acqua saponata, le rispondevo di nuovo.

- Ma cosa dici? Assaggiane almeno un sorso.

- NO! le rispondevo secco.

- Assaggiala, altrimenti te la verso addosso.

- No! rispondevo testardo.

- Adesso te la butto addosso, diceva di nuovo mia sorella, allungando il braccio pronta a farlo.

Per paura che lo facesse sul serio, infine la assaggiavo. Lei stessa mi avvicinava la bottiglia vicino alle labbra. Non appena il primo sorso scendeva in gola mi assaliva il disgusto. Con un gesto violento della mano allontanavo la bottiglia dalle mie labbra, sputando quello che avevo in bocca.

 - Sei proprio uno stupido, concludeva mia sorella, arrendendosi alla evidenza dei fatti, evitando di insistere per farmi provare di nuovo.          

 

Poi tutto finiva. Le ferie finivano in fretta. I miei fratelli partivano e noi ritornavamo alla solita vita di paese, noiosa e opaca. Il sole cambiava colore. La luce, che i miei fratelli con la loro presenza avevano acceso, si spegneva. Tutto si trasformava in grigiore. In casa non si parlava più. Nessuno aveva più nulla da dire. Restava solo quel poco di cinema della domenica, se riuscivo a racimolare le centocinquanta lire, o ascoltare le canzoni alla radio che la domenica a mezzogiorno trasmettevano per un’ora, aggiornandoci sulle novità canore settimanali. Vi era una canzone in quel periodo che spopolava. Tutti la cantavano, in tutte la lingue, in tutte le nazioni. Era bella, molto bella. Il titolo italiano era “I ragazzi del Pireo” o “Uno a me, uno a te”, che era poi la colonna sonora del film “Mai la domenica”, Never on Sunday” il titolo originale. Incuriosito, volevo sapere di cosa si trattasse, conoscere la trama del film e soprattutto cosa significasse quella affermazione:- Mai la domenica. Cosa volesse essere quel divieto? Cosa volesse significare. E, soprattutto, cosa non si dovesse fare “la domenica”, come recitava il titolo. Volevo vedere il film, ma nessun cinema lo programmava, nè il cinema del mio paese, nè i cinema dei paesi vicini, nè a Gallipoli ove tutti i nuovi film venivano proiettati appena usciti. La curiosità era tanta, avrei fatto carte false per poterlo vedere. Le centocinquanta lire le avrei trovate in tutti i modi pur di vederlo. Ma non ci fu verso non si proiettava da nessuna parte. Dovetti a malincuore rinunciare. Quel mio desiderio restò inappagato per sempre. Poi il film passò di moda e non se ne parlò più. Scomparve dalla circolazione. Mi capitò di vederlo per pura casualità, una ventina d’anni dopo, durante una notte insonne. Non riuscendo a dormire guardavo la televisione, quando su Rai Tre verso mezzanotte lo proiettarono. Più che mai interessato e incuriosito lo guardai dal principio alla fine. Il film, in bianco e nero, era bellissimo, con una splendida Melina Mercuri, una attrice greca, al culmine della sua bellezza, che ne era la protagonista. Narrava la storia di una prostituta che svolgeva il mestiere più vecchio del  mondo nel porto del Pireo in Atene, coi marinai delle navi di passaggio nel porto e con i clienti abituali del posto che poi erano anche suoi amici. Un bel gruppo di amici compatto e solidale che la difendeva a spada tratta in ogni occasione e da qualsiasi malfattore che si approfittasse di lei. Svolgeva il suo, diciamo così, “mestiere” durante tutta la settimana, come è usanza per chi esercita quel mestiere, tutti i giorni e le notti, eccetto la… Domenica. La domenica aveva deciso che non si doveva esercitare e non lo faceva. Lei aveva scelto che in quel giorno non si dovesse lavorare perché la domenica era festa per lei. Da qui il titolo del film:- Mai di domenica. La domenica la trascorreva in compagnia dei suoi amici fidati, che erano anche suoi clienti più affezionati, impegnata a mangiare, ballare, cantare senza fare sesso però. I suoi amici erano ben felici di accontentarla. La domenica si riunivano nella sua casa, portavano del cibo che poi cucinavano e consumavano tutti insieme, cantando, ballando, raccontando storie, facendo baldoria, in una atmosfera idilliaca, di amicizia vera, pura, senza gelosie o vendette. Compatti e solidali fra loro, sempre pronti ad aiutarla in caso di bisogno. Ricreava quel film un mondo puro e incontaminato, una realtà in cui ti sarebbe piaciuto vivere, se fosse stato possibile, restando per sempre con loro. Era quel film una di quelle cose che vorresti non finissero mai e che una volta finito ti lasciano una struggente nostalgia per non averlo vissuto.  Vorresti che continuasse per sempre quella fantastica, costruita irrealtà che solo un bel film può creare e far rivivere.

Ecco svelato l’arcano. Ecco svelato il mistero. Ecco ciò che era vietato fare la domenica. E adesso capivo la ragione per la quale il film venne vietato e di conseguenza era scomparso dalla circolazione. La censura negli anni ’50 era severissima. Se in un film vi fosse qualcosa di equivoco o una parola sconveniente, veniva subito censurato. Figurarsi poi per il film in questione che narrava la vita di una prostituta…Scandalo totale. Anche, poi, se di scandaloso il film non avesse praticamente nulla. Non vi erano in esso nè scene scandalose, nè scene equivoche. Era di una bellezza solare e pura. Ma la censura non la pensava allo stesso modo.  Quale fine potesse fare quel film nelle mani della censura negli anni 50’, se non farlo sparire dalla circolazione? E infatti fu quello che successe. Il film venne censurato e vietato a tutti. Sparì dalla circolazione per sempre, vietando a tutti quanti una lezione di vita, di autentica purezza, di allegria e di gioia di vivere.

Erano quelle le cose semplici per cui vivevamo negli anni 50’senza vizi ne fronzoli. Una vita casta e pura senza malizia. Senza chiedere nulla, aspettando che il futuro ci carpisse e ci catapultasse nella vita vera, offrendoci le occasioni e le esperienze per vivere la vita come dovesse essere vissuta.

Era quello il tempo dei sogni, dei desideri, dei progetti. Sognavamo di partire verso lidi lontani; realizzarci, emergere dimostrando le nostre capacità, lasciando per sempre l’opaca vita provinciale, nella quale nulla succedeva di stimolante e di interessante. Sognavamo di cambiare il nostro destino, anche se non sapevamo nemmeno da dove cominciare per realizzare il nostro futuro, noi ragazzi di provincia lontani anni luce dalla vita di città in cui sognavamo un giorno di andare a vivere. Sogni e solo sogni, fantasie di adolescenti, che della vita non sapevamo ancora nulla e che certamente non ancora pronti per affrontarla.  

 

 

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